sabato 8 giugno 2013

Un mio piccolo ricordo della recente visita alla Comunità di Capodarco di Grottaferrata (Roma).



La speranza dentro l’invisibile

Il diario di viaggio è un genere letterario che ha avuto espressioni altissime. Anche i
reportage dei grandi giornalisti erano dei modi per raccontare i viaggi. Io, che non sono un
romanziere né un avventuriero, mi accontento di scrivere per costruirmi un po’ di pace e
per mettere ordine alle mie speranze. Per riporle, infine, dove non si dovrebbe, nei luoghi
remoti, dove è strano andare a cercare. Così posso dimostrare quanto diceva Neruda:
“Dove il buono del mondo vive, nessuno guarda”.
Nei due giorni trascorsi a Grottaferrata (e dintorni) presso la Comunità Capodarco e la
Casa Famiglia Milly e Memmo la speranza (e la solidità) della redenzione l’ho vista
chiaramente e l’ho sentita sulla carne. L’ho vista nell’impegno, costantemente rivolto alla
costruzione, di don Franco Monterubbianesi, fondatore della Comunità di Capodarco e che
nel 1978 anche qui ha voluto piantare una croce, un segno di pacifica conquista. Facendo il
più vasto gesto spirituale che si possa pretendere da un uomo, per quanto già di Chiesa,
ossia fare a pezzi la propria umanità per ricomporla intorno a quella altrui. A difesa e a
sostegno degli altri. Degli umili, degli offesi, dei disagiati. Insomma dei salvati, stando a
Sant’Agostino. Ma che pure nel mondo intorno a loro, che è quello che noi costruiamo a
nostra somiglianza, non sono salvati, bensì traslati ai margini. Invisibili. Obliati. La forza
dell’ascolto e quella dell’astrazione che si fa accoglienza e rivoluzione l’ho sentita in Ilaria,
che di don Franco è sostegno e concretezza. Nella sua considerazione ho trovato quella
sensazione di cui parlano i poeti quando, senza nominarla, riferiscono di una
corrispondenza tra persone quasi sconosciute, una specie di memoria implicita, conservata
chissà dove e condivisa.
Mi è parso evidente, sin dall’arrivo, sabato mattina, alla prima tappa di questo mio viaggio
verso Grottaferrata, come dovessi assumere una volontà netta: sgombrare la vista dalle
evidenze e, invece, ascoltare. La riapertura di un mercato rionale da parte di un comitato di
cittadini di un quartiere alla periferia sud di Roma è stata la prima occasione, quindi, per
sperimentare questa autoregola. Gli spazi del mercato erano pieni di un’umanità buona,
protesa, accordata. Una socialità quasi utopica, trasversale e viva, stava convergendo verso
uno spazio puro: lo scambio umano, il contatto. Bambini in festa, bancarelle e banconi di
merce, prodotti della terra e dell’artigianato. Una musica, poi, in fondo, costante e fatta di
frequenze radio e voci, soprattutto (no, nessuna melodia particolare; salvo il colore vario
dei suoni…). Banchetti di associazioni, cibo e una poetica e accettabilissima atmosfera di
sospensione. Eppure, quel mercato, era un esempio eroico di sforzo collettivo verso la
riappropriazione di un luogo. Pubblico e, quindi, politico (polis, città). Di un diritto,
probabilmente. Una vittoria del quartiere sui soliti innominabili poteri cannibali e su una
politica statica, immobile e che ha bisogno di dimostrazioni di coraggio popolare come
questa per capire quale dovrebbe essere il suo mestiere.
Quindi, nel primo pomeriggio, l’arrivo a Grottaferrata e alla Comunità Capodarco dove si
giunge in auto, dopo aver percorso un piccolo tratto in discesa. E quella che si apre, a
questo punto, è “città luminosa” dentro una natura armonica; una struttura estesa e
organizzatissima, regolata, geometrica. Un luogo chiaro, definito. Dentro cui si muove un
attivismo rapido, una vivace mobilità. Però, se ci avviciniamo e guardiamo bene, si tratta di
una dimensione inedita. Vale a dire un progetto, ormai trentennale, di coesistenza:
impegno, lavoro, inclusione. Un complesso di più edifici, con al centro il grande ristorante
recuperato da una vecchia stalla e in alto la Casa accoglienza Milly e Memmo - dai nomi dei
primi ospiti nonché promotori di questa realtà - che è un modello di comunità vera. Dove il
lavoro e in particolar modo quello “protetto” - che è quello svolto dai soggetti disabili e
disagiati, come mi spiega l’amico Giuseppe - non è protetto. È integrato, invece, e
sostenuto ed è parte fondante di questo progetto. Delle produzioni (siano esse quelle
agricole delle serre o dei campi piuttosto che quelle artigianali dei laboratori e delle cantine
vinicole), delle attività educative e formative, delle mansioni di sostegno, di recupero e di
cura. Un’idea di adesione piena alla vita, da parte di ciascuno, che viene dal fare e dall’etica
del servizio. Inoltre, quello della partecipazione, come principio democratico, è un valore
che è a fondamento della condizione di tutti. Come se un solo perentorio dettato fosse
venuto dallo spirito e dalla volontà fondativa di don Franco e di chi l’ha aiutato e continua
a farlo: l’esclusione non è praticabile in questo luogo. “Un altro mondo è possibile” è il
motto ufficiale e da apprendere subito, se vuoi capire il senso dell’essere qui. Non esiste
possibilità di marginalizzazione, in questo nostro – me ne sento già parte - mondo, in
questa nostra dimensione rivoluzionaria, in quanto più umana. La cena, preparata da
Orietta, è calma e avviene allo stesso tavolo con amici nuovi. Tra cui Fabrizio, che ama il
calcio e indossa una tuta sportiva della Roma. Don Franco, dopo cena, vuole andare a
prendere un gelato a Frascati e mi pare bellissimo assecondare un animo così più giovane
del mio…
La mattina della domenica si va alla messa pronunciata da don Franco presso la chiesa
salesiana di Lanuvio, cittadina dove abita Ilaria. La messa è in memoria di Andrea, un
giovane operatore dell’associazione Primavera che s’è tolto la vita pochi giorni fa, a 28
anni – la mia età. S’è abbandonato sotto un treno per la sofferenza di un’esistenza rimasta
insostenibile, prosciugata dalla precarietà, dalla solitudine, dall’oblio del presente. Dopo la
messa, resa divertentissima dalle irritualità di don Franco e sostenuta dal clima allegro di
un coro entusiasta e orgogliosamente autonomo dal musicista – c’è stata l’assemblea
ordinaria di Primavera. Quest’associazione si occupa da molti anni di sostenere i ragazzi
disabili e le loro famiglie nelle difficoltà quotidiane del disagio, peggiorate dalla distruzione
e dalla scomparsa del walfare state a cui sta assistendo questo Paese ormai da diverso
tempo e per cui ci si deve organizzare. Il pranzo che è venuto a seguire è stato ancora un
modo per festeggiare la speranza: quella di progettare – gettare avanti, etimologicamente
- il proprio entusiasmo, di immaginare nuove attività per i ragazzi assistiti, e motivi di
crescita e di protagonismo. Sullo stimolo di una madre forte, presidente dell’associazione,
che nella sofferenza per il proprio figlio disabile ha trovato la forza di innalzare un grido,
un richiamo di compassione a tante altre madri, e padri e famiglie nella stessa condizione.
Uno spazio, insomma, d’immaginazione e di prassi per cercare, anche qui, un’alternativa
all’esclusione e un’autenticità salvifica.
L’esperienza dell’utopia, dell’idea sintetica, mi viene incontro, fortissima, quando visitiamo
– con don Franco e Ilaria – il “borghetto”. Una sorta di “comune”, quello che doveva essere
un villaggio di contadini ai piedi del colle di Lanuvio e che qui lavoravano una terra
immensa, calda e ricca, coperta di fecondità e di sole. Uno spazio benedetto, verrebbe da
dire, e lasciato abbandonato e appetibile per chi vorrebbe ricavarvi profitti con un uso
intensivo e dis-umano (o post-umano) dell’agricoltura. E che invece sarebbe stupendo
immaginare come sociale, aperto, collettivo, comunitario. Questo è, infatti, il progetto di
don Franco: rendere questo nucleo antico come ancora vitale, cercando le risorse per
trasformarlo in una città giusta, del lavoro e della partecipazione. Una sorta di prototipo di
comunità autonoma, in cui impiegare ogni capacità (compresa quella potente di un
disabile, di un migrante, di un precario, di un respinto) e ogni energia, per la costruzione di
un ideale comune, in cui ognuno abbia un pezzo e se ne senta responsabile. Una serie di
edifici, che erano magazzini, residenze, persino una chiesa, da recuperare e da trasformare,
da tornare a riempire di messi o di provviste, di merci e di prodotti. Di cose concrete e di
valori. Dei segni di una rivoluzione tangibile, che sta dentro il presente e ci richiama
all’azione – citando Gramsci.
Al tardo pomeriggio di domenica pare arrivare la luce giusta, un tramonto lieve e la luce
dei colli romani, per tornare a casa. Vengo accompagnato da Ilaria e Giuseppe alla stazione
metro di Anagnina (capolinea sud-est della linea A di Roma). Il treno e l’autobus che mi
riportano a Porto San Giorgio sono vuoti anche se pieni di gente. Non perché non voglia
vedere nessuno. È solo che gli occhi, a differenza del cuore, non hanno spazio infinto e
bisogna proseguire a riempirli e svuotarli per vivere, per sentire.
Nella parte di noi che lasciamo agli altri, e nel dono, aggiungo, sta, come diceva Pavese,
l’unico vero senso dell’esistenza nostra. Per dare senso agli incontri avuti, allora, ricorderò
la prima lezione imparata a Capodarco: se siamo fatti di amore, come dimostra il Cristo e
come vorremmo fosse vero, non possiamo esimerci dal testimoniare questo amore, questa
corrispondenza profonda, e dal dargli respiro.

Jonata Sabbioni
Una bella notizia!

La Regione Marche ha voluto accordare a AINRaM Marche, Funima Interntaional Onlus, Cacuam e Associazione Falcone e Borsellino dei fondi per la realizzazione del progetto "Per una scuola della legalità e della mondialità" in alcune scuole superiori del territorio fermano.  

Una bella sfida che sarà anche una grande occasione di impegno e di testimonianza civile e sociale!

Adesso, al lavoro!

A presto, 
Jonata Sabbioni